Poco prima della chiusura forzata imposta per tutti i luoghi di cultura, ho avuto occasione di incrociare una scolaresca di bambini della primaria nel nuovo mini-bookshop allestito in prossimità dell’uscita di un museo milanese.
I bambini si aggiravano tra le vetrine dei souvenir con un brusio dolente. Tutto costava troppo per i denari cha avevano in tasca. Li vedevo ridurre di teca in teca le loro aspirazioni spostando l’attenzione su oggetti sempre più minuti ed economici. Qualcuno rinunciava muto con la delusione dipinta in volto, qualcuno più loquace discuteva con la maestra sulla liceità del denaro a prestito, in pochi tiravano fuori una banconota con baldanza, I più contavano e ricontavano gli spiccioli.
Non era un bel vedere un viaggio nella cultura terminare sbattendo sugli scogli dell’economia (ma mi verrebbe da dire del buon profitto, dati i prezzi esposti).
E’ stata l’occasione per registrare ancora una volta l’incongruenza tra questo momento “mercantile” e lo spirito di gratuità che dovrebbe costituire l’essenza di ogni momento di apprendimento, di frequentazione del sapere, di sollecitazione educativa del pensiero. Soprattutto in un’istituzione pubblica.
La visita a un’esposizione museale (come a molte altre “occasioni” culturali) dovrebbe porsi l’obiettivo di trasmettere ai bambini l’importanza di entrare in contatto con qualcosa di nuovo e di interessante, prescindendo completamente, anzi implicitamente confutando, una mera logica del possesso.
Un museo è un luogo aperto in cui si materializza un sapere che è disponibile a tutti, che tutti possono godere (in misura della competenza conoscitiva acquisita) e che ognuno fruisce divenendo consapevole che per un individuo acquisire non significa avere materialmente.
In modo non dissimile si insegna ai bambini ad ammirare un fiore senza strapparlo, sia perché vive una vita propria che non è giusto sopprimere per il proprio capriccio, sia perché lasciarlo dov’è consente ad altri di godere della medesima esperienza di bellezza.
Non credo di indugiare in uno stereotipo sostenendo che la cultura che avvolge i bambini dei nostri giorni è una cultura del consumo, spesso dell’usa e getta, nella quale possedere privatamente viene prima del condividere pubblicamente.
Eppure la gratuità, il disinteresse, l’altruismo e il senso del bene comune restano luoghi centrali della nostra cultura, quella che l’indimenticabile ministro Tremonti considerava inidonea per un panino: “La cultura non si mangia”…
Il museo, quello classicamente inteso, quello che non da occasioni di manipolazione, di gioco, di esperienza diretta, può inconsapevolmente diventare un luogo di massima “frustrazione” del desiderio di possesso, con tutte quelle belle cose inavvicinabili, intoccabili, spesso oltre un vetro.
Potrebbe essere una straordinaria occasione educativa l’elaborazione di questa frustrazione, molto più frequente nei piccoli di quanto si possa pensare nelle idealizzazioni educational.
Invece no. Si preferisce metterla all’incasso, la frustrazione, facendola sfogare nell’acquisto di souvenir a fine visita. Che poi in linea di massima è paccottiglia, scelta che di nuovo opera un ribaltamento educativo tra l’aver fatto esperienza dell’esistenza di oggetti rari, di grande valore, da apprezzare proprio per questo e il piacere del possesso purchessia, indipendentemente dall’insignificante consistenza di ciò di cui ci si appropria.
A questa opinione si può rivolgere l’obiezione che per i bambini può essere bello portarsi via un ricordo dell’esperienza vissuta.
Sicuramente, ma è un bisogno che andrebbe “lavorato” perché non sia il soddisfacimento di una pura compulsione al possesso (tutte le guide museali sanno che i bambini chiedono cosa possono “prendere” prima ancora di iniziare la visita guidata, così come spesso desiderano fare foto prima ancora di sapere cosa stanno fotografando).
Piuttosto che lasciarli individualmente alle prese con le logiche dell’acquisto – che spesso inoltre differenzia odiosamente i bambini per possibilità di spesa -, sarebbe allora meglio chiedere alle insegnanti di raccogliere un euro a bambino così che si possa fare un acquisto per la classe nel suo insieme, che così potrebbe godere di un “bene comune” a suggello di un’esperienza didattica condivisa.
Insomma, per concludere, quando si progettano offerte per gli studenti, non dimentichiamo mai che oltre ai contenuti squisitamente didattici esistono sempre, implicitamente o esplicitamente, anche aspetti educativi che non vanno sottovalutati e che anzi, spesso, sono anche più importanti.
Tra le molte cose che possono rendere “ricchi” gli incontri con fondamentali presidi di sapere quali sono i musei, evitiamo di includere anche il mercato della cultura.
Oliviero Grimaldi