Spero che Tobias Jones, l’autore di “Ci manca la scuola” pubblicato su Internazionale del 30 aprile 2020, non se ne abbia male se traggo spunto dal suo bell’articolo per comunicare idealmente alcune considerazioni al Ministro Azzolina e al suo istituendo Comitato Tecnico Scientifico (ma prima o poi dovremo anche capire a cosa servono i Ministeri, se i problemi veri necessitano di comitati tecnici a chiamata).
L’articolo di Jones è molto interessante sotto diversi aspetti.
Il primo è la sintesi asciuttissima di alcuni nodi irrisolti e, piacerebbe dire non più procrastinabili, della scuola pubblica italiana.
In estrema sintesi:
- “La formazione degli insegnanti è variabile. I laureati vengono spesso messi in classe senza nessuna conoscenza pedagogica e nessuna esperienza pratica”
- “Le valutazioni sulla qualità dell’insegnamento sono molto rare”
- “L’istruzione italiana è spesso conservatrice e paternalistica: l’allievo è visto come un vaso vuoto da riempire di nozioni che poi rigurgiterà agli esami”
- “Il 59% degli insegnanti italiani ha più di 50 anni, l’età media più alta al mondo”
- “L’Italia spende per l’istruzione meno di quasi tutti gli altri paesi occidentali”.
Ministro Azzolina, ognuno di questi punti, affrontato singolarmente, imporrebbe di avviare un processo di cambiamento radicale dell’universo scolastico, altro che gestire il dopo corona virus.
Il secondo spunto utile dell’articolo di Jones è la confessione di quanto sia difficile trasformare i paradigmi dell’insegnamento anche in chi è mosso dalle migliori intenzioni, come l’autore dell’articolo. Ognuno di noi porta sulle spalle (ma sarebbe meglio dire annidato nella corteccia cerebrale) l’autoritario modello tradizionale di insegnamento di cui ha fatto esperienza per tutta l’infanzia e l’adolescenza e che è pronto a scattare, come un riflesso incondizionato, di fronte a ogni problema pedagogico. Una sorta di risposta immunitaria che in questo caso non deve proteggere l’organismo biologico, ma l’ansia psicologica del proprio ruolo di mentore, lavoratore, genitore.
Jones infatti racconta di aver insegnato per tutta la vita e nei contesti più disparati e come le sue convinzioni pedagogiche derivino da quelle di Winnicott “secondo cui il gioco è la chiave della crescita e del benessere di un bambino”. Ma quando si rende conto che il tempo lungo e vuoto dell’isolamento casalingo dei suoi figli è riempito esclusivamente dalla frequentazione passiva di devices digitali, decide di rimediare presentandosi a cena con libri di poesia e leggendone brani a voce alta. Che ammirabile impulso, che disastrosa strategia, e che deludente risultato: “Stavo cercando di imporgli le mie passioni, usando la conoscenza per calmarli e sottometterli” si rende conto il giornalista con il senno di poi.
E infatti saranno i compiti di giardinaggio che la moglie di Jones offre di condividere con i figli, la mossa che riesce a smuovere i ragazzi dal torpore.
Cari membri del Comitato Tecnico Scientifico del ministro Azzolina: fare esperienze guidati da un adulto capace e motivato è il vero insegnamento, non i mezzi tecnologici…
Il terzo e principale aspetto che emerge dall’articolo dell’Internazionale è una sorta di “risveglio” su cosa dovrebbe essere la relazione di insegnamento / apprendimento, conseguenza imprevista della didattica a distanza.
“Anche l’equilibrio tra insegnante e alunno è cambiato” annota Jones, “perché il tradizionale “bastone” della scuola non c’è più”. Niente più vincoli fisici (il posto seduto in classe di cui si è parlato in questo post), niente più verifiche a sorpresa, o note o minacce di bocciature (il Ministro ha detto che non si può). E quelli imbrogliano, copiano, latitano. E i genitori spesso non aiutano. Che fare?!
Jones riporta un’opinione raccolta nella sua inchiesta “questi due mesi sono serviti a rieducare più gli insegnanti che gli alunni”. E sostiene che “In Italia c’è sempre stata una battaglia tra gli intransigenti e i riformatori come Maria Montessori, che mettono il bambino e la bambina al centro. Ora sembra che i secondi stiano avendo la meglio.”
Lo voglia il cielo!
Per non parlare del fatto che la vita privata dello studente – orrore! – entra a forza nella relazione con il docente: “Ci sono ragazzi che hanno perso un nonno, genitori che rischiano il posto di lavoro, altri che litigano di continuo”. E tocca di tenerne conto, tu pensa la disgrazia. Oppure no. Gli insegnanti interpellati da Jones si rendono conto che “un insegnante deve essere una presenza costante, come un assistente sociale o uno psicologo”, “Che hanno bisogno”, che “si vergognano di mostrare i loro spazi personali”. Oppure “che non c’è più l’intimidazione del gruppo e questo fa venir fuori cosa sanno davvero” o che “con gli studenti tenuti a freno dalla presenza dei genitori e gli insegnanti consapevoli che i genitori possono sentire, durante le lezioni c’è spesso un’insolita calma”.
Testimonianze che echeggiano peraltro quelle raccolte negli scambi di mail o negli incontri on line realizzati dalla cooperativa sociale Fosforo di Milano con i molti insegnanti che partecipano alle sperimentazioni didattiche della cooperativa.
Anche se la sensazione, in questi incontri come nelle opinioni raccolte su l’Internazionale è che si sia interpellato un campione di docenti che, oltre a osservare e interrogarsi su quanto accade, hanno cercato soluzioni; un campione forse non proprio rappresentativo dell’intero corpo docente italiano.
Faccia tesoro, Ministro Azzolina, di queste consapevolezze da parte di chi è appassionato al proprio lavoro (senza vanterie retoriche ministeriali, perché non tutti i suoi dipendenti sono uguali). “Abbiamo bisogno di una forma molto più diversificata di insegnamento” come alcuni insegnanti hanno già compreso. Abbiamo bisogno di relazioni educative e, prima ancora, centrate sull’individuo, sia esso il docente o lo studente.
Prima dei tablet, molto prima.
Anche perché nel nuovo mondo che verrà (che comunque verrà, ma molto della sua forma possiamo influire a plasmare) ci sono molti interrogativi e fragilità.
Come sintetizza Jones, provano incertezza i docenti che temono di scomparire in una sorta di videogioco; sono in ansia i genitori che non sanno valutare i progressi dei figli (anche se spesso sono “i soggetti più conservatori e paranoici di tutto l’ecosistema scolastico”); e anche alcuni tra i promotori di una nuova inclusività digitale temono che in assenza di una innovazione delle idee e metodologie didattiche, la tecnologia non serva affatto, e anche gli incontri su Whatsapp o Zoom “possono essere altrettanto frontali e retorici di una lezione vecchio stile”.
Concludendo, Ministro e membri dell’istituendo CTS, la scuola italiana merita di più della semplice soluzione a un problema contingente quale l’epidemia e i provvedimenti volti a tutelare la salute. E’ uno dei paesi più ricchi di inventiva nel campo dell’educazione e dell’istruzione, da Pestalozzi, passando per Don Milani, fino a Malaguzzi, senza elencare tutti coloro che vi stanno in mezzo. E oggi una costellazione di professionisti e organizzazioni cerca tra mille fatiche di inoculare ogni giorno miglioramenti e progressi nel grande corpo della scuola pubblica.
Non ripetete gli stessi errori dei tanti che vi hanno preceduto con analogo mandato.
Non ci serve efficienza senza visione. Non ci servono soluzioni tecniche ma prospettive umane, culturali, sociali.
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